Conobbi Padre Luigi a un'assemblea della Gifra che
si tenne a Pacognano. All'ordine
del giorno c'era l'approvazione della nuova forma di vita della Gifra, che si
sarebbe poi chiamata «II nostro volto». Fui chiamata a sostituire per qualche
tempo Mariano Bigi alla presidenza di un'assemblea
incandescente, in cui si svolgeva un dibattito
furibondo; ma l'elemento più acceso della platea
era un frate napoletano che si sbracciava urlando a più non posso - le maniche
della tonaca indecentemente rimboccate - in difesa del punto di vista dei suoi
ragazzi. Feci più fatica a tener lui dentro i binari che non tutto il resto della platea. Quando
scesi dal podio, esausta, mi raccolse mia madre che per seguito di circostanze
mi aveva accompagnato, e domandò indignata: «Ma chi è quel diavolo di frate?»
Qualcuno accanto a noi disse divertitissimo:
«Quello è Padre Luigi Monaco».
Mi volsi
incredula a guardare l'indescrivibile cialtrone che sedeva in platea, occupato
ora a conversare amabilmente coi suoi ragazzi. Quello? Quello era P. Luigi Monaco? Di lui conoscevo già alcuni scritti,
che mi avevano colpito per acutezza dei concetti e la sicurezza dello stile.
Come si conciliava tanta sapienza con quegli atteggiamenti provocatori e quelle
maniche rimboccate?
A sera, ebbi l'onore d’essere al tavolo delle autorità, dove sedeva anche
lui; o meglio, dove avrebbe dovuto sedere, perché molto raramente mi è accaduto
di vedere P. Luigi fermo per più di cinque minuti, quando non ve lo costringeva
il dovere di una relazione, o l'intensissima —intensissima anche se occulta— gioia di una
celebrazione eucaristica. Negli intervalli, lo sentii parlare; e ritrovai anche
nella sua conversazione l'acutezza, l'intelligenza, la capacità di comunicazione
che denotavano Ì suoi scritti. Ma nella
conversazione c'era anche la sua indescrivibile cialtroneria: la capacità di
aggredirti piantandoti gli occhi in faccia, il modo inimitabile di accompagnare
le parole impugnando la forchetta, del tutto dimentico del fatto che la
forchetta serve per mangiare; il gusto chiassoso, violento, di chiamare la gente da un tavolo all'altro.
Era un uomo così diverso da me — dalle mie abitudini, dal mio
contegno, dalle mie inibizioni, dalla mia
inguaribile correttezza formale
— che ci ho messo molto a capirlo. Lui invece mi ha accettato generosamente fin
dall'inizio della nostra collaborazione, nonostante le mie critiche e i miei
distinguo. E mi vergogno da morire al pensiero che una volta gli mandai una
letteraccia - sia pure scherzosa - perché, nel correggere le bozze di un mio
articolo per "Vita Francescana", era incorso in un errore, omettendo
un segno di punteggiatura importante; e in tal modo aveva attribuito a me
parole che invece dovevano essere - nientemeno del Foscolo. Solo più tardi
seppi che proprio in quel periodo aveva cominciato a star male con gli occhi
-in seguito al suo viaggio in Brasile, dove, probabilmente, si era speso con la
consueta generosità e imprudenza. E capii che anche quel minuscolo errore che
aveva risvegliato in me la deformazione professionale, era dovuto alla
stanchezza e alla fatica. Ma non mi disse mai: «Sto male con gli occhi e devo
leggere tante cose».
Era umile: di un'umiltà
particolare. Aveva un modo tutto suo di scusarsi con lo sguardo, quando qualche
cosa non andava. Intendiamoci: quando qualcosa non andava bene per gli altri,
perché per lui tutto andava sempre bene. Affrontava con lo stesso entusiasmo il
disagio fisico e le difficoltà del lavoro. Ma sapeva che per gli altri non era
lo stesso.
Non posso fare a meno di
sorridere ricordando il nostro ultimo incontro ai Camaldoli, in occasione di un
convegno giovanile. Il luogo era talmente freddo, e la temperatura fuori tanto
bassa, che io, data l'età e le abitudini, credetti di rischiare un ictus; lui
mi incontrò in corridoio e disse amabilmente: «forse un po' fresco per te, qui,
eh?» Ma lui non si stropicciava nemmeno le mani, per riscaldarsi, come pure
facevano anche i ragazzi. Era abituato a ben altro. E in lui si vedeva anche
questo. Si vedeva la presenza di una abituale disciplina interiore, di una
austerità che contraddiceva l'apparente faciloneria dei modi. Posso dire una
cosa più sottile? Posso dire una cosa da donna? La dirò, anche se dovesse
scandalizzare qualcuno. Si avvertiva in lui la presenza di una castità
profonda. Non era questione di un voto: era una questione d'amore, di dedizione
totale e irreversibile: «Dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.»
Su questa castità interiore poggiava la sua qualità più
misteriosa, quella che me lo ha reso caro; e che era, incredibile a dirsi, la
sua profonda serietà. Questa serietà mi colpiva, di lui, quando lo incontravo
per caso nei corridoi durante un convegno, e lui non si aspettava di essere
incontrato. Come l'ultima volta che lo vidi ai Camaldoli, mentre usciva da una
Messa solitaria, celebrata all'alba solo per lui e per me; — e che fortuna
avere adesso quest'ultimo ricordo e lo avvicinai mentre sgattaiolava lungo la
parete, quasi nascondendosi ancora nel Cristo che aveva appena ricevuto — le
mani ficcate in quelle famose maniche, tutto ripiegato su se stesso. Io gli
esposi in fretta non so qual problema pratico; ma sebbene egli si fosse subito
reso disponibile all'ascolto, io vidi bene che solo la sua mente mi seguiva: il
cuore era ancora assorto altrove. Dico la verità: lo invidiai.
Era un uomo felice. A volte
anche le persone consacrate non sono affatto felici. Questa è una realtà che si
avverte, al di là di ogni dominio di sé, e anche al di là delle migliori
intenzioni del mondo. Lui era felice, perché nonostante tutta la sua cultura e
i non lievi problemi che portava sulle spalle, era rimasto fondamentalmente un
semplice. E al semplice basta soltanto Iddio.
Era generoso. Una qualità
stupenda, che va facendosi sempre più rara, nei consacrati e nei laici. E la
qualità di lui che più ricordo e apprezzo, ora che, alle soglie dei
sessant'anni, faccio il bilancio della mia vita e mi accorgo di essere stata
tanto misurata e prudente nello spendermi. Lui no: si spendeva senza riguardi;
e come tutti sappiamo, anche per questo è morto come è morto. Ma la sua
generosità, penso, è stata proprio ciò che l'ha reso caro ai ragazzi; perché
trattare coi ragazzi è tutt'altro che facile. I ragazzi non vogliono
chiacchiere, vogliono fatti; i ragazzi vogliono - e vogliono giustamente essere
a lungo ascoltati, fiancheggiati ed attesi, prima di concedere all'adulto lo
splendido dono della loro fiducia. Essi hanno sentito in lui un cuore giovane,
capace di donarsi senza riserve; e hanno risposto a questo cuore con la stessa
generosità. Ho ammirato, dei «suoi» ragazzi, anche la compostezza nel dolore:
un dolore massiccio e vivo come un muro di carne, un dolore che si tagliava a
fette, dentro la chiesa di Santa Chiara; eppure un dolore fortemente dominato e
ricondotto ai piedi di Cristo. Ho assistito, durante la mia esperienza di
insegnante, ad altre tragedie; ho visto altri funerali; in cui il dolore
giovanile è esploso in forme incomposte e deliranti. Ho notato la differenza,
che era l'espressione di una precedente, rigorosa ed alta scuola di vita.
Assente Padre Luigi, Ì suoi ragazzi senza saperlo parlavano di lui.
A questi ragazzi — e a me
stessa, e a tutti noi, che in questo momento ci sentiamo smarriti come orfani —
vorrei ricordare un passo del Vangelo di Marco che non casualmente mi è venuto
sott'occhio in un'ora, come questa, di scoraggiamento. Giovanni Battista è
incarcerato, e avviato al suo destino di morte; e Marco dice: «Dopo che
Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea, predicando il Vangelo di dìo e diceva: II tempo è compiuto e il
regno di Dio è vicino; convetitevi e credete al Vangelo». Cristo esce allo
scoperto, quando muoiono i suoi. E Lui, allora, ad assumere in proprio la guida
dell'eredità desolata.
Siamo pronti ad ascoltare ancora
il suo richiamo, pronti a tener di nuovo il suo passo?
(Vita francescana 45 (1993), 2,
pp. 17-20)